La dipendenza è un’attitudine dettata da un sistema di credenze, cioè un grumo di pensieri errati che ci distoglie dal contatto autentico con noi stessi. È un’attitudine che abbiamo sempre replicato, da un certo momento in poi della nostra infanzia, come strategia di sopravvivenza. Questa abitudine ricorre continuamente nei nostri comportamenti, anche dopo esserci liberati delle relazioni tossiche. Quello che voglio dire è che, se è relativamente “facile” uscire dalla dipendenza da alcol, droghe, gioco, sesso, cibo eccetera, perchè l’oggetto della dipendenza è fuori di noi (quindi è facilmente identificabile e “facilmente”, ovviamente tra virgolette, evitabile), la stessa cosa non può dirsi per la dipendenza affettiva.
Nella dipendenza affettiva entrano in gioco le parti piccole e ferite del nostro inconscio, che ci spingono a ripetere modalità relazionali che normalmente inducono dipendenza e attaccamento. Lo hanno sempre fatto, in ogni tipo di relazione, non conoscono altro modo di entrare in contatto con altri esseri umani. È come se la loro vocetta continuasse a ripetere: «Non sei abbastanza, solo con quella persona sei completo». Quelle parti infantili ferite ci suggeriranno di costruire solo relazioni di dipendenza, cioè relazioni in cui smarriamo i nostri confini, annulliamo la nostra identità, ci spersonalizziamo.
Come neutralizzarle? Non certo giudicandole, spazientendoci, oppure odiandole perchè ne siamo ancora preda. I meccanismi automatici della nostra personalità si neutralizzano solo con l’attenzione, l’amore e la cura.
Prem Ravat, ambasciatore della pace nel mondo, oggi ha pubblicato un bellissimo post, in cui sottolinea quanto sia importante nella vita che qualcuno sia dalla nostra parte. È bello avere amici e persone che ci amano e ci sostengono, ma è più importante, dice Prem, trovare dentro di noi qualcuno che sia dalla nostra parte, scoprire cioè che l’essenza più autentica di noi stessi non smette di sostenerci e di stare al nostro fianco.
Per uscire dalla dipendenza, occorre fare appello proprio a quella parte sana che vuole solo il meglio per noi. Come una madre amorevole, essa deve prestare attenzione e cura alle nostre emozioni, per accoglierle e guarirle.
Faccio un esempio pratico per spiegarmi meglio: ho un nipotino di tre anni che adoro e che trascorre con me alcuni pomeriggi alla settimana, perchè i genitori lavorano. Provo una grande gioia a stare in sua compagnia e non mi pesa dover sacrificare parte dei miei impegni per occuparmi di lui. A un certo punto, però, mi sono accorta che le volte in cui non toccava a me tenerlo, non facevo che pensare a lui, mi sentivo vuota, una volta sono anche passata sotto casa sua nella speranza che uscisse e potessi rivederlo: l’amore sano e incondizionato si stava trasformando in attaccamento. Cioè, stavo facendo dipendere la mia felicità dalla sua presenza, avevo perso la mia libertà di essere umano e mi sentivo completa solo quando lo tenevo tra le braccia. Come tutti gli attaccamenti, la mia sensazione di mancanza produceva sofferenza. La sofferenza è una grande amica, ci fa capire che da qualche parte nella nostra vita c’è una falsità, un’illusione, una menzogna che altera la realtà. Per fortuna, ho imparato a dare ascolto alla sofferenza e, quando mi sono accorta che stavo soffrendo, ho cominciato a prestare attenzione, a capire da dove venisse il mio malessere. Non ho cercato alibi fuori (il fatto che il bambino non fosse con me), perchè so bene che non sono “il” problema. Ho cercato dentro di me e ho visto l’attaccamento, ho visto che stavo trasformando la gioia di avere un nipotino nell’incubo di non averlo 24 h su 24. Ho capito che le mie emozioni negative erano suscitate dalle mie parti piccole che si sentivano abbandonate e la paura dell’abbandono in passato mi ha gettato tra le braccia dei miei carnefici. Stavolta me ne sono presa cura, come una mamma che sa rassicurare i suoi piccoli. Ho detto a quelle parti: «Tranquille, io non vi abbandonerò mai».
È bastato perchè la sofferenza svanisse. Ho provato un immediato senso di sollievo, perchè ogni volta che si svela una falsità si sta rapidamente meglio. Dopo aver superato la fase acuta del dolore ed essere risalita alla sua origine, sono passata alla fase successiva: scoprire quante cose meravigliose sono in grado di fare nel tempo in cui non mi occupo del mio nipotino. Ho ritrovato così l’equilibrio che ho sempre avuto per dedicarmi alle cose che amo e che mi interessano, ho ripreso a scrivere e a studiare con maggiore entusiasmo, ho praticato le mie due più grandi passioni: il pilates e il canto polifonico.
Ho smesso di amare mio nipote? No, anzi lo amo di più, ma questo amore non mi annienta, non mi annulla, mi stimola invece a mettere più gioia in tutte le altre cose che mi piace fare, che so fare e che fanno parte del mio modo di essere.
Per uscire dalla dipendenza è indispensabile contattare la realtà e nella realtà esprimere chi veramente siamo, con gioia e semplicità.