Non ho mai nutrito grande simpatia per la Cortellesi: si dà troppe arie da prima della classe e sembra tanto perfettina e superiore da darmi sui nervi.
D’altra parte gli specchi non sono mai piacevoli da guardare…
Insomma, sono andata a vedere il suo film solo perchè quello che volevo vedere (premiato a Cannes) lo davano un altro giorno, e ormai ero uscita.
Mi siedo in poltrona senza troppa convinzione, ma già dalle prime scene ammetto di dovermi ricredere.
“Come ti sembra?”, chiede il mio vicino. “Un capolavoro”, rispondo. E tale lo considero.
Mi è piaciuto tutto: regia, scenografia, sceneggiatura, recitazione e soprattutto il soggetto, che parte da una vicenda sommessa e periferica, per risolversi in un evento di portata decisiva per la storia del nostro Paese e di questa parte del mondo.
Tralascio altri dettagli, per non guastare il finale geniale a quei pochi italiani che ancora non l’hanno visto (praticamente lo proiettano ovunque!).
Non voglio limitarmi a una semplice recensione, che non mi interessa in sè e per sè, quanto piuttosto soffermarmi sul tema della violenza domestica, che si evince facilmente anche dal trailer.
La protagonista vive una vita miserabile, solitaria, piena di vergogna e di autosvalutazione, scontando il fio della sua unica, grande colpa: aver sposato l’uomo sbagliato, il quale la picchia di continuo, adducendo a pretesto il fatto che “lei le chiama, le botte”: una frase che ho sentito diverse volte purtroppo, raccontata da donne costrette a subire la violenza maschile, ma anche da uomini, le cui donne hanno atteggiamenti aggressivi e maneschi.
Il suo dramma si svolge sotto gli occhi di tutti: i figli, i familiari, gli amici, i vicini, persino i tutori dell’ordine pubblico (rigorosamente americani, come accadeva nella Roma dell’immediato dopoguerra). Nessuno di loro, tuttavia, per quanto la compatisca, sembra poter fare niente per aiutarla. anche perchè lei non chiede mai aiuto e finge che il suo inferno sia la normalità.
La donna alterna momenti in cui si sente realmente una nullità a momenti in cui accarezza l’idea di fuggire con un altro uomo, che l’ha sempre amata, ma non si è fatto avanti in tempo.
Forse la maggior parte delle donne che hanno visto il film ha parteggiato per la seconda soluzione.
Io stessa, nel libro “Guariti per amare”, che analizza l’abuso narcisistico, consiglio vivamente la fuga come rimedio alla violenza fisica e psicologica, senza soffermarsi a spiegare le proprie ragioni o a chiedere giustizia: chi lo ha fatto, l’ha pagato con la vita, come leggiamo quotidianamente sui giornali.
Ricordo il caso della bellissima donna incinta di soli 29 anni, Giulia Tramontano. I suoi genitori le avevano chiesto di andare a casa loro e di lasciare il marito definitivamente, ma lei ha insistito per rimanere: forse voleva giustizia, forse voleva che il marito riconoscesse i suoi torti e si scusasse con lei. Un errore che le è costato 37 coltellate, che hanno ucciso lei e il bambino che aspettava.
Il film della Cortellesi, però, propone una soluzione diversa per arginare l’abuso e probabilmente sottrarsene: fare gruppo, smettere di isolarsi.
La donna intreccia la propria fragilità a quella di altre donne come lei, abusate in modi diversi, producendo conseguenze determinanti nella sua famiglia e nell’intera società.
Brava, Cortellesi: si possono aiutare tante persone dimostrando che uscire dall’isolamento in cui l’abuso confina la vittima è un’arma vincente.
E allora, ancora una volta chiedo alle vittime di violenza domestica, scolastica, lavorativa, sentimentale, cybernetica e di qualunque altro genere:
Smettete di tacere, vi prego, smettete di credere che avete tutto sotto controllo.
Abbiate fiducia nella forza del gruppo.
E chiedete aiuto.
Può salvarvi la vita.