Qualche giorno fa la cronaca di Treviso ha riportato una terribile vicenda: una bambina dodicenne è stata costretta a subire rapporti sessuali dal compagno della madre, la cui identità di narcisista patologico mi è tristemente nota, perchè è uno dei protagonisti del mio libro Guariti per amare.
Per convincere la ragazzina, la madre le ha fatto addirittura vedere “come fare”. La figlia ha raccontato anche che, mentre veniva costretta dai due a un rapporto orale, il volto della madre aveva lo stesso ghigno di Joker.
Questa storia aberrante mi obbliga a fare delle riflessioni sulla natura patologica di entrambi gli attori dell’abuso narcisistico: la vittima e il carnefice.
La medicina ha già da qualche anno ascritto il narcisismo patologico tra le patologie psichiatriche che necessitano di trattamenti farmacologici ad hoc per essere “contenute”.
Non credo ci sia soffermati abbastanza, invece, sulla natura patologica della vittima, in quanto ci si è concentrati principalmente, e giustamente, sulla necessità di prestarle supporto psicologico e pratico.
Al fine di ridurre al minimo gli episodi di abuso, tuttavia, è importante a mio avviso soffermarsi adeguatamente sulla personalità dell’abusato, perchè, se non si comprende la sua mentalità, non può essere aiutato in modo efficace e duraturo.
Questa donna, questa madre, suscita a prima vista ribrezzo e riprovazione per il suo operato. L’unica cosa da fare è toglierle la patria potestà perchè non è in grado di proteggere adeguatamente la prole, anzi la espone a danni di natura fisica e psicologica molto gravi, forse irreversibili.
E poi? E’ tutto qui? Non c’è altro da fare? Io credo di sì.
Questa donna è una dipendente affettiva e per una dipendente affettiva il partner rappresenta l’unica ancora di salvezza da morte certa. Una dipendente affettiva crede di non valere niente da sola, di non riuscire a farcela da sola, di non meritare una relazione sana e solida, di doversi accontentare delle briciole.
Ecco perchè si consegna nelle grinfie di un narcisista patologico: perchè pensa di non potere avere altro che le briciole che lui le concede, in cambio di sacrifici enormi. Quelle briciole danno al dipendente affettivo un senso di identità, persino anche la prova di essere ancora vivo. Un dipendente affettivo si sente vivo attraverso l’oceano di sofferenze che la relazione di abuso narcisistico gli procura. Quella relazione tossica è l’unica cosa che sente di possedere e non può farne a meno, è la sua droga, è la sua vita, è tutto ciò che gli impedisce di farla finita.
Questo modo di pensare induce le persone a subire cose che non dovrebbero mai subire, talvolta fino alle estreme conseguenze, come morire assassinati, essere sfregiati, o, purtroppo, anche sacrificare i propri figli. In quest’ultimo caso, la vittima deve scegliere tra l’amore genitoriale, che sicuramente prova, e la sua personale sopravvivenza: se la psiche è particolarmente danneggiata, come nel caso della signora di Treviso, il bisogno di sopravvivere prevale sul sentimento ancestrale che ogni madre in genere nutre per il suo bambino.
Abbiamo letto con sbigottimento sui giornali negli anni scorsi di donne che hanno difeso l’uomo che ha ucciso il loro bambino e oggi leggiamo di questa donna che ha consegnato la figlioletta all’uomo che ne avrebbe fatto scempio. Lei, che sapeva bemissimo, essendo una donna, che cosa esattamente la bambina avrebbe provato nel subire lo stupro.
Lei avrebbe fatto di tutto per lui, anche questo. Tutto, pur di non essere abbandonata. Tutto, purchè rimanesse con lei.
Considerata sotto questa luce, la donna di Treviso non è più un mostro: è una persona gravemente malata che deve essere aiutata a ritrovare il senso e il valore della sua vita.