Gianluca Nicoletti, giornalista de La Stampa, ha recentemente dichiarato di voler creare un chatbot con la sua voce che interagisca dopo la sua morte con il figlio autistico.
Se ne è parlato all’università, nel corso di una piacevole conferenza organizzata dalla Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi, dedicata al volume di Luciano Floridi dal titolo “Etica dell’intelligenza artificiale”, pubblicato da Raffaello Cortina l’anno scorso.
A commentare il testo, un sociologo di chiara fama, il quale ha illustrato i problemi etici, sollevati da Floridi, in cui si può incorrere “maneggiando” l’intelligenza artificiale senza la dovuta maturità. Ha citato, per esempio, il caso di un gruppo di adolescenti rinviati a giudizio perchè avevano manipolato alcune foto delle compagne per pubblicarle in deshabillè. “Bravate come queste, ha detto, sono sintomi di una profonda mancanza di sensibilità”. Ha infine concluso la sua conferenza auspicando che il male del momento, l’anaffettività giovanile, possa essere risolto al più presto.
Alla conferenza è seguito un breve dibattito, nel quale tutti si sono detti solidali con l’iniziativa intrapresa da Nicoletti, aggiungendo suggerimenti in favore dell’educazione emotiva scolastica e familiare. Lo stesso conferenziere ha esclamato con voce commossa: “Magari ci fosse stata l’intelligenza artificiale quando ero piccolo! Avrei registrato la voce di mio padre, che è morto quando avevo tredici anni”.
Quanto me, lì per lì mi sono sentita felice di aver partecipato e di aver appreso nuove informazioni, però la notte non sono riuscita a dormire molto bene. Ho avuto strani incubi, in cui le parole che avevo sentito, all’apparenza così diverse, si accavallavano e si rincorrevano: autismo, chatbot, etica, intelligenza artificiale, anaffettività giovanile.
Al risveglio, ho cercato di districarmi nella confusione che sentivo, riflettendo sulle singole parole, e mi sono accorta che in effetti un collegamento tra di esse c’è.
La prima parola, autismo, è speciale per me, in quanto da anni coabito con due fratelli autistici, che sono anche i miei maestri di vita: mi insegnano quotidianamente il valore delle gioie semplici, mi indicano la direzione verticale dell’esistenza che, senza di loro, forse sarei tentata di dimenticare e, ovviamente, mi spiegano inconsapevolmente molte cose sulla loro malattia.
L’autismo ha tante sfaccettature e tante forme, così tante che gli specialisti devono studiare caso per caso e non possono applicare regole comuni sulla base di una semplice diagnosi. Quello che però tutti gli individui afflitti da questa sindrome hanno in comune, secondo me, è la PAURA, una grande paura dei cambiamenti, dell’alterazione della routine e perfino dei rumori. I suoni hanno per loro una grande valenza ed è per questo che la musicoterapia o la body percussion sono attività fortemente consigliate per stabilizzare il loro stato emotivo. Quando si parla con loro, quindi, è indispensabile utilizzare un tono di voce rassicurante, che consenta di creare un clima sicuro e protetto, entro cui stemperare le loro ansie.
Per quanto mi senta affettuosamente vicina al giornalista Nicoletti e comprenda fino in fondo il suo desiderio di poter “fare qualcosa” per il suo figlio speciale anche in futuro, credo che un chatbot con la sua voce non possa che terrorizzare il ragazzo, che non vede suo padre, o forse che lo avrà visto morto, e che dovrebbe ascoltare una voce senza corpo. Stando alle lezioni imparate dai miei fratelli, non lo ritengo utile per il benessere di una persona autistica, che non è in grado di comprendere che cosa stia succedendo e che può spaventarsi moltissimo.
Provo anche tanta tenerezza per il mio amico sociologo e comprendo perfettamente il suo legittimo desiderio di poter sentire di nuovo, ancora e ancora, la voce di suo padre. Anch’io spesso avrei voglia di riascoltare la voce di mio padre, o di mio fratello Maurizio, morto di leucemia a 49 anni. Però l’istinto mi suggerisce che quella voce posso risentirla, ogni volta che mi serve, dentro di me, dentro il mio cuore e dentro l’affetto che continua a legarmi ai miei cari defunti. So anche molto bene che la loro morte è stata decisiva per rendermi la donna che sono oggi e molti lati positivi del mio carattere sono scaturiti dal dolore per la loro scomparsa precoce.
Quindi non mi serve illudermi di averli ancora fisicamente presenti, grazie a un congegno ipertecnologico, perchè questa sarebbe solo una falsità e non mi aiuterebbe ad affidarmi al presente, così per come si presenta.
Il contatto con la realtà così com’è è il mezzo più idoneo a conservare la mente lucida e in buona salute, ed è anche il modo migliore che conosca per trascendere la materialità ed esplorare le infinite connessioni tra gli esseri viventi.
Ecco, per me il pericolo maggiore insito nell’uso scorretto dell’intelligenza artificiale è proprio quello di alterare la realtà in modo più o meno permanente, inficiando le nostre percezioni e la nostra capacità critica.
Questo è per me il problema etico fondamentale. Una percezione alterata e falsa della realtà, infatti, genera disturbi psichici, che si definiscono proprio come percezioni distorte del mondo reale.
Tra i disturbi psichici credo si debba annoverare anche l’anaffettività giovanile, l’apatia, il nichilismo, che Umberto Galimberti aveva definito già nel 2008 “L’ospite inquietante”.
Temo che la facilitazione totale offerta dall’intelligenza artificiale possa acuire il fenomeno nichilistico tra i giovani, perchè contribuisce alla mancanza di stimoli, di curiosità, di impegno, di sacrificio, di rinuncia e di scoperta.
Tutto è già disponibile: dalle immagini alle informazioni, dagli oggetti alle persone.
Tutto è a portata di mano e non occorre sudare per guadagnarsi alcunchè.
E non c’è gioia in ciò che non si può conquistare, non c’è soddisfazione in quello che non ha ostacoli, che già noi adulti abbiamo molto spesso reso facile e asettico.
Un amico che ha già superato la sessantina mi ha recentemente raccontato, con una punta di orgoglio, che quando era giovanissimo aveva lavorato un’estate come manovale per racimolare i soldi necessari a comprarsi un paio di camperos senza chiedere i soldi ai genitori.
A ripensarci, nonostante siano trascorsi quasi cinquant’anni, provava ancora un senso di soddisfazione e di gioia.
Mi chiedo: il contatto con la realtà e il gusto di lavorare per ottenere un risultato sono forse due ingredienti utili per contrastare la sordità emotiva dilagante? Forse lo sono, forse si potrebbe provare.
Noi adulti possiamo ancora aiutarli, questi poveri ragazzi, a ritornare a provare la soddisfazione di una conquista difficile, a nutrire curiosità irrisolte senza un duro lavoro: emozioni meravigliose, che quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a gustare.