Il film di Wim Wenders “Perfect days” (2023) è stato universalmente apprezzato dalla critica come paradigma della serenità zen, del valore dell’umiltà, dell’importanza delle piccole cose, in riferimento al modo peculiare con cui gli Orientali, gli abitanti dell’altra parte del mondo, vivono la vita.
Anche a me è piaciuto molto, e ho pensato anch’io, nella prima parte del film, che la ripetitività delle giornate di Hirama avesse una ciclicità filosofica di sapore tipicamente orientale.
Il protagonista, infatti, si alza ogni mattina prima del sorgere del sole, si prepara, esce fuori dalla sua modesta abitazione e immancabilmente sorride al nuovo giorno. Poi si mette alla guida di un modesto pulmino, corredato di tutto il necessario, per recarsi al lavoro, che consiste nel pulire i bagni pubblici.
Lungo la strada, la colonna sonora di Lou Reed e di altri mostri sacri del rock americano, oltre a fargli compagnia, incornicia una Tokyo meravigliosa, pronta anch’essa al risveglio e all’operosità.
Dopo il lavoro, che svolge con scrupolo rigoroso, Hirama torna a casa, consuma una modesta cena in un locale vicino e si addormenta puntualmente mentre è ancora immerso nella lettura di uno dei suoi tanti libri.
La monotonia della settimana si interrompe la domenica, quando è solito recarsi in bici a pranzare nel locale di una sua amica, che è anche una cantante di talento, con la quale intrattiene un’evidente relazione platonica.
A turbare la “perfezione” delle sue giornate, entra in scena la nipotina, che chiede ospitalità allo zio perchè in rotta con la madre.
Lo spettatore scopre a questo punto che Hirama non è solo al mondo, ma ha una famiglia e una sorella.
Lei arriva a riprendersi la figlia con una macchina di lusso guidata da un autista e scambia poche, accorate parole con il fratello, che aggiungono dettagli e chiarimenti circa la scelta di vita di Hirama: una scelta che avrebbe potuto avere delle alternative ben meno umili e ben più lussuose.
Quando le due donne vanno via, forse per sempre, Hirama riprende la sua consueta routine, fatta di giorni tutti uguali, la cui narrazione, per quanto mostri scene quotidiane di profonda semplicità e modestia, ha in sè un’intima poesia, cesellata dai tanti panorami della città giapponese e sottolineata dalle musiche di Reed e di altri artisti di fama mondiale.
Solo nell’ultima scena il protagonista, mentre sorride come ogni giorno e ascolta i suoi cantanti preferiti, ha il viso improvvisamente appannato dalle lacrime. Ma dura solo pochi istanti e nell’espressione degli occhi ritorna il consueto sorriso di chi è felice e appagato dalla propria vita.
Quell’ultima scena, io l’ho interpretata come il senso globale del film: che la felicità dipende dalle proprie scelte.
Cioè che la felicità non giunge da un lavoro prestigioso, da relazioni appaganti, da oggetti materiali di prestigio, bensì è una diretta conseguenza della fedeltà alla propria integrità, dall’adesione ai propri ideali.
La scelta radicale di un certo modo di vivere, tuttavia, implica la rinuncia a qualcos’altro e tale rinuncia può essere, e il più delle volte lo è, dolorosa.
La felicità di essere se stessi ha in sè un carico evidente di dolore, un carico con cui Hirama fa i conti quotidianamente.
Eppure lui accetta tutto: parafrasando la nota frase di san Paolo, se dalla vita accettiamo le gioie, perchè non dobbiamo accettare anche le sofferenze?
La felicità non è, in questo film come nella realtà, assenza di dolore, ma integrazione amorevole della gioia e del dolore.
E se la nostra vita ci appartiene pienamente, senza rimpianti e senza tradimenti di ciò che siamo, allora possiamo affermare di essere felici.
Felici, nonostante il dolore.