I Giochi Olimpici di Parigi si sono conclusi da un pezzo, ma continua a tornarmi alla mente l’espressione degli occhi di quegli atleti che hanno difeso il loro diritto a esultare e a essere orgogliosi pur non avendo vinto. Mi è spuntato un fugace sorriso di simpatia per le giornaliste che speravano di strappar loro un rimpianto, un pentimento, forse anche un singhiozzo, così richiesti dall’audience in questi tempi di vuoto emotivo. Vedere piangere e soffrire gli atleti perdenti avrebbe forse recato sollievo all’orgoglio ferito di chi si sente perennemente fallito e deluso dalla vita, come accade alla maggior parte di noi poveri cristi.
Ma non è accaduto come si sperava: più di un atleta si è dichiarato felice del suo piazzamento, anche se non gli/le ha procurato una medaglia e una foto ricordo sul podio. Ho sentito una ragazza difendere appassionatamente il lavoro di lunghi anni che l’aveva condotta a cimentarsi in una competizione così prestigiosa in rappresentanza del proprio Paese e a raggiungere quel risultato. L’ho vista condividere gioia ed esultanza con coloro che invece quel podio se l’erano conquistato: tutti figli della stessa passione per lo sport, della stessa abnegazione, delle stesse rinunce e sacrifici che li hanno portati ad allenarsi invece che alienarsi, ad affrontare la fatica piuttosto che concedersi il piacere di stare con gli amici o andare a ballare. Si sa, lo sport (come lo studio, la musica e l’arte in generale) pretende disciplina, rigore, serietà quasi anacronistica negli anni della giovinezza. Ecco perchè non tutti possono praticarlo. E chi lo pratica perchè sente dentro quell’impulso come un anelito vitale, al di là del risultato, ne è ripagato con una gioia che non appartiene alla terra e che risulta incomprensibile a coloro che nella vita hanno sempre agito per raggiungere un fine e mai travolti dalla passione che trae da sè nutrimento, giustificazione e gratificazione.
In una società che pretende efficienza, eccellenza e competitività, che insegna a gareggiare per vincere surclassando gli avversari senza esclusione di colpi, imparare a perdere aiuta a sopravvivere ai modelli irraggiungibili proposti dai media, a misurarsi con i propri limiti e puntare sulle proprie abilità. E talvolta anche a gioire in modo incomprensibile ai comuni mortali, a trarre dalla sconfitta nuova linfa per fare meglio, per individuare gli errori e superarli, sempre allo scopo di sentirsi felici e non vincitori a tutti i costi.
Che lezione meravigliosa hanno dato a tutti noi questi giovani! Lungi dall’essere dipendenti dai social e incapaci, come gli adulti spesso li giudicano con troppa superficialità, hanno incarnato un modello di ‘eccellenza umana’ da perseguire come scopo nella vita.